DOCUMENTO DI POLITICA INTERNAZIONALE DEL PRC

Direzione Nazionale del PRC sulla politica internazionale

Roma, 29 giugno 2000

[Approvato a larga maggioranza, con 7 voti contrari e 1 astenuto]

Il processo economico, culturale e politico, universalmente identificato come "globalizzazione" costituisce una nuova fase del sistema capitalistico, un vero e proprio nuovo capitalismo. La dimensione del capitale finanziario e la sua autonomia dai poteri politici nazionali e sovranazionali, l’analoga grandezza ed autonomia delle società multinazionali, il nuovo modello produttivo, connesso alle innovazioni tecnologiche, teso a risparmiare lavoro umano e ad inseguire la manodopera al suo più basso costo, la penetrazione del capitale e della sua logica di sfruttamento nella sfera della vita vegetale ed animale, sono solo alcuni degli aspetti salienti di questo nuovo capitalismo. Le principali conseguenze investono il ruolo degli Stati nazionali, i modelli sociali non coerenti con l’imperativo della ristrutturazione degli stessi secondo una logica mercantile e competitiva, i modelli culturali resistenti all’omologazione al pensiero unico, ogni conquista del movimento operaio e la stessa esistenza delle forze che si propongono il superamento del sistema capitalistico. Il processo di globalizzazione capitalistica, infatti, produce, sia nei paesi sviluppati e ricchi sia nei paesi sottosviluppati e poveri, le medesime conseguenze: la controriforma dei poteri classici dello Stato, che ne rovescia il ruolo, come l’intervento sull’economia e sul modello sociale, attraverso la tendenziale completa liberalizzazione dei mercati, le privatizzazioni e le cosiddette "riforme strutturali" imposte da organismi internazionali, totalmente subordinati agli interessi del capitale finanziario e delle società multinazionali; l’aumento dell’esclusione sociale, e cioè della disoccupazione e della povertà anche in presenza di crescite considerevoli del PIL; una vera e propria minaccia nei confronti di civiltà e culture che, per la concezione delle relazioni umane con la natura e con l’economia, risultano incompatibili con i nuovi criteri di sfruttamento delle risorse e con l’assolutizzazione del concetto di competitività sui mercati liberalizzati. Con la comparsa di grandi sacche di disoccupazione e povertà nei paesi ricchi, e di minoranze benestanti non trascurabili nei paesi poveri, alla tradizionale contraddizione Nord-Sud si affianca sempre più quella Centro-Periferia, che si può trovare dovunque, sia localmente sia globalmente.

La crisi degli Stati

La crisi degli Stati Nazione è sotto gli occhi di tutti. Non nel senso di un’estinzione, ovviamente, bensì in quello di un profondo mutamento del loro ruolo. Si passa, in altre parole, da uno Stato sovrano che, sebbene parte di un sistema capitalistico internazionale, rimaneva dotato della possibilità di contribuire alla costruzione di un modello economico e sociale, sul quale incidevano lo scontro di classe e le conseguenti mediazioni sociali e politiche, ad uno Stato gestore di politiche decise al di fuori della sua sovranità, e quindi tendenzialmente tecnocratico ed impermeabile al conflitto di classe e ad ogni contraddizione incompatibile con gli interessi del nuovo capitalismo. La tendenziale cessione della sovranità da parte dello Stato non avviene solo verso la dimensione sovranazionale, bensì anche verso il basso, verso la dimensione locale. Tutto ciò è chiaramente rintracciabile nella nostra stessa esperienza. L’Italia, quinta potenza economica e commerciale del pianeta, è stata investita da un potente processo di ristrutturazione che ha portato alla quasi completa privatizzazione delle società pubbliche presenti sul mercato, che ha determinato ristrutturazioni del bilancio dello Stato secondo il criterio del risparmio della spesa sociale, con la conseguente cancellazione del concetto di universalità delle prestazioni sociali, che ha prodotto una "riforma" del mercato del lavoro nel senso della svalorizzazione e della precarizzazione del lavoro umano, che ha determinato la spinta ad una ristrutturazione "federalista" dello Stato. Quest’ultima è la codificazione della possibilità di competere, senza la mediazione degli interessi collettivi nazionali, da parte delle zone ricche e sviluppate e delle zone povere con le loro reciproche corrispettive a livello globale.

Fine del "campo socialista"

Nel quadro internazionale non siamo più, da tempo, nella fase della contrapposizione tra due diversi sistemi politici e statuali, tra due modelli economici completamente alternativi fra loro, quello del "socialismo realizzato", ad integrale proprietà pubblica dei mezzi di produzione e ad economia pianificata, e quello capitalistico. In quella fase il contesto geopolitico dei due campi e il ruolo degli Stati, che mantenevano una certa dose di sovranità relativamente ai modelli economico-sociali, era di importanza centrale. Oggi siamo immersi in una fase completamente diversa. Dopo il crollo dei sistemi dell’Est europeo dobbiamo registrare un’evoluzione regressiva del sistema capitalistico, con la negazione della coppia concettuale sviluppo-progresso, ed una sua dilatazione tendenzialmente planetaria. Leggere le contraddizioni, che non mancano e sulle quali torneremo fra poco, presenti nel contesto geopolitico e fra Stati o gruppi di Stati, con l’ottica della fase precedente sarebbe un gravissimo errore. In particolare, come già abbiamo affermato nel documento approvato all’ultimo nostro Congresso, dobbiamo costruire la nostra politica internazionale su una analisi delle contraddizioni di classe e sociali, locali e globali, fondando il nostro giudizio sulla situazione geopolitica a partire da queste ultime e non viceversa. La nostra idea di politica per l’Europa, per esempio, non si fonda su una sbagliata, ed illusoria, prospettiva di sviluppo di contraddizioni tra un presunto capitalismo europeo ed un altro statunitense. Anche perché non c’è multinazionale, con consiglio di amministrazione residente in Europa o negli Usa, che non proponga esattamente la stessa cosa, come la ben nota vicenda degli Accordi Multilaterali sugli Investimenti avrebbe dovuto ampiamente dimostrare. Noi puntiamo sulla resistenza al modello economico-sociale neoliberista che si produce oggi sia nei singoli Stati sia, embrionalmente, a livello sovranazionale. Ma pensiamo anche che solo una dimensione sovranazionale sia utile per la ricostruzione di una nuova autonomia statuale e di modello sociale, rispetto a quello proposto dalla globalizzazione, e per la produzione di un’alternativa all’attuale modello capitalistico. Anzi, in realtà, pensiamo che solo la costruzione di un processo per un’altra Europa produrrebbe un’effettiva democratizzazione dell’integrazione politica ed una vera politica estera comune. Solo poggiandosi su un modello sociale alternativo al neoliberismo si può produrre, infatti, una reale autonomia politica dagli Usa ed una nuova relazione fra vecchio continente e terzo mondo. Perciò abbiamo considerato centrali, nella dimensione europea e nelle relazioni politiche con le altre forze antagoniste e comuniste, le questioni dello stato sociale e dei movimenti di lotta sul lavoro e sui problemi sociali. E’ del tutto evidente che l’attuale processo di integrazione dei mercati, sotto la spinta della liberalizzazione, e di ristrutturazione del sistema produttivo, sotto la spinta della competizione assoluta e planetaria, è già largamente affermato. Analogamente lo è la trasformazione del ruolo degli Stati lungo la linea di tendenza che prima abbiamo descritto. Tuttavia non si tratta di un processo lineare, privo di contraddizioni. Al contrario si tratta, dal punto di vista strettamente geopolitico, di una fase assolutamente instabile e perfino pericolosa per la stessa pace mondiale.

L’impero militare

Contemporaneamente all’affermarsi della globalizzazione capitalistica assistiamo ad un riposizionamento complesso, e turbolento, dei rapporti di forza nell’ambito politico-militare a livello mondiale. Lo Stato nordamericano si è trovato, grazie al ruolo svolto, dal punto di vista militare e monetario, nel periodo della guerra fredda e grazie ad un modello sociale coerente con gli imperativi imposti dagli interessi del capitale, ad avere contemporaneamente due enormi vantaggi nella nuova fase capitalistica. Il primo è relativo al ruolo giocato nella promozione politica, in tutte le sedi, del processo di liberalizzazione dei mercati e di ristrutturazione della produzione, che ha permesso a questo Stato di stare in una particolare sintonia con le esigenze del capitalismo mondiale, e non solo con questo o quel settore radicato sul proprio territorio. Prova ne sia il fatto che le grandi multinazionali "europee" o "asiatiche" così come le associazioni di piccole e medie imprese, praticamente in tutti i paesi fortemente industrializzati, hanno fortemente appoggiato le proposte neoliberiste sostenute dalle agenzie economiche e finanziarie e dal governo degli Usa. Il secondo è la disponibilità di una potenza militare, ereditata del ruolo svolto dall’imperialismo americano nella guerra fredda, da riciclare, in chiave egemonica, nella costruzione di un governo unipolare del mondo nel quale associare, ferma restando la difesa degli interessi mondiali del capitale, gli Stati dei paesi ricchi. o chiave, nel processo di globalizzazione. Sarebbe un errore scambiare, però, questo ruolo egemonico dello Stato Usa nell’ambito della costruzione di un governo unipolare con il suo dominio, concorrenziale e tendenzialmente antagonistico, di altri importanti formazioni statali. Le guerre del Golfo e dei Balcani, così come il ruolo del G7, del Fondo monetario internazionale, della Banca Mondiale, dell’Ocse, del Wto ecc., dimostrano che, seppure fra mille contraddizioni, è in atto il processo di costruzione di un governo reale del mondo, secondo gli interessi del capitale globale. Le contraddizioni commerciali e di concorrenza tecnologica e produttiva, che esistono, ed in alcuni settori perfino crescono, si collocano indiscutibilmente nell’ambito di un sistema capitalistico sempre più unificato e, ben difficilmente, si possono descrivere come determinate da sistemi capitalistici diversi fra loro. Il ruolo degli Stati dei paesi del G7, per esempio, è quello di promuovere la ristrutturazione del proprio territorio secondo i criteri e gli interessi del nuovo capitalismo, ma anche quello di recuperare un proprio profilo politico-militare, e protagonismo internazionale, dentro l’ambito della costruzione del governo unipolare, collocando le reciproche concorrenzialità nella gara a chi meglio rappresenta e difende gli interessi globali del nuovo capitalismo. In questo nuovo quadro il concetto di "imperialismo", seppur vigente, deve necessariamente essere largamente rifondato, mentre la nozione di "contraddizioni interimperialistiche" appare del tutto incapace di descrivere la dinamica dei rapporti di forza fra gli Stati e, al contrario, potrebbe rivelarsi fuorviante dal punto di vista di chi si propone la lotta al capitalismo ed il suo superamento. La globalizzazione e il processo di costruzione dei nuovi assetti unipolari hanno prodotto e producono numerose tensioni e contraddizioni nel quadro geopolitico. Innanzitutto vi è la tendenza al superamento dell’Organizzazione delle Nazioni Unite come istituzione sovranazionale, la cui immanente crisi dovrà essere oggetto di una nostra più approfondita analisi e proposta, in favore di organizzazioni chiaramente di parte, come la Nato, o di organismi nei quali si conta per censo e per dimensione economica come il Fmi, l’Ocse, il Wto e soprattutto il G7. Con la crisi del ruolo dell’Onu, infatti, rischia di tramontare per un lunghissimo periodo, la speranza di un assetto politico-istituzionale del mondo fondato sul multipolarismo e sull’esistenza di modelli economici e sociali diversi fra loro. Vi è il permanere, la crescita e la nascita, di forti tensioni in diverse aree geopolitiche del pianeta. In ognuna di queste aree si intrecciano resistenze regressive o progressive alla globalizzazione, ruoli di Stati che, mentre implementano la ristrutturazione capitalistica delle proprie società, tentano di far leva su spinte nazionali o neonazionaliste, per guadagnarsi uno spazio nel governo unipolare, soprattutto attraverso un ruolo politico-militare regionale autonomo dagli Usa e dalla Nato, gli interessi diretti di grandi concentrazioni economico- finanziarie sovranazionali. La politica Usa, del G7 e della Nato è attualmente quella di mantenere alta la tensione e l’instabilità, in tutte queste aree, sia per giustificare e ribadire la propria supremazia politico militare sia per fondare i presupposti del consenso necessario per far accettare, nonostante le crisi sociali, i costi abnormi della conseguente ristrutturazione degli apparati militari. In particolare la situazione dell’Iraq e della Yugoslavia, ma sarebbe meglio dire del Medio Oriente e dei Balcani, dimostrano sia che la guerra è ormai iscritta come strumento "normale" di intervento del governo unipolare, sia che essa è finalizzata, in entrambi i casi, principalmente ad obiettivi strategici piuttosto che alla semplice avversione a regimi o ad interessi economici immediati. Con tutta evidenza l’espansione ad Est della Nato non è il frutto di un’esigenza difensiva dei paesi membri, bensì la proiezione dell’obiettivo strategico di ridurre la Russia a potenza regionale per poterla cooptare, depotenziata, quando l’ormai avanzato processo di integrazione economica nella globalizzazione sarà completato, nel novero dei paesi partecipanti al governo unipolare. Non è un caso che in Russia la resistenza a questo vero e proprio attacco prenda la via della rinascita di un forte nazionalismo, dell’esercizio di un potere militare nel Caucaso, della ricerca di alleanze fra Stati, ma non di un qualsivoglia recupero di un progetto originale nella sfera economico-sociale. In altre parole da una parte l’integrazione della Russia nella globalizzazione dei mercati liberalizzati e delle privatizzazioni spinge, più a lunga scadenza, verso una sua cooptazione politica e militare nel governo unipolare, e dall’altra gli attuali gruppi dirigenti sognano una rinascita della Russia come potenza mondiale e allo stesso tempo, però, subordinano il paese dal punto di vista economico.

Analogamente la politica seguita dagli Usa e dai loro alleati nei confronti della Cina si propone di impedirne il ruolo di potenza regionale, sia buttando benzina sul fuoco del latente conflitto con Taiwan e dei problemi etnici e religiosi interni, sia favorendo una sua veloce integrazione nella globalizzazione capitalistica. Più in generale, nel mondo, scoppiano contraddizioni e conflitti che hanno a che fare con i problemi di classe e sociali, con nuovi problemi che riguardano la natura e la vita umana, con le identità culturali di civiltà grandi e piccole che la globalizzazione minaccia nella loro stessa esistenza, con il ruolo di nuove classi dirigenti che lottano per avere un posto nel governo unipolare. Il problema ineludibile, per chiunque si voglia porre nella prospettiva del superamento del capitalismo, e quindi soprattutto per un partito comunista, è quello di avere una propria politica internazionale capace di contribuire alla costruzione di lotte capaci di promuovere esperienze di movimenti, di organizzazione sociale e di governo autonomo fondati sull’alternativa alle politiche neoliberiste, su nuove forme di democrazia, e per questa via davvero capaci di mettere in discussione il sistema. Il Partito della Rifondazione comunista ha prodotto modesti, ma significativi, passi in questa direzione. Per farlo è stato necessario innovare pesantemente la tradizionale, o le tradizionali, concezioni di internazionalismo consolidatisi nella tradizione comunista e rivoluzionaria di questo secolo. La consapevolezza che ci ha guidati è quella di agire dopo una grande crisi, dovendo per questo contribuire ad una rifondazione.

Il ruolo della Cina

Abbiamo superato la pratica delle relazioni internazionali basate su discriminanti ideologiche. Non per eclettismo, ma, al contrario, per poter dispiegare pienamente rapporti con tutte le forze statali, politiche e sociali progressiste o, comunque, investite in modi e forme diverse dal processo di globalizzazione. Questo ci ha permesso di avere un’interlocuzione con più di duecento partiti e movimenti di tutti i continenti, la maggioranza dei quali sono dichiaratamente comunisti o rivoluzionari. Nell’ambito di questa interlocuzione, ovviamente, abbiamo registrato una particolare vicinanza d’analisi e di proposta con diverse forze, con le quali, però, non abbiamo mai scelto di stringere rapporti organici multilaterali. Con altre forze abbiamo registrato divergenze, a volte profonde, di impianto generale o su singoli problemi, senza mai, però, rinverdire vecchie ed inutili polemiche ideologiche con il corollario di scomuniche e scontri diplomatici. Non abbiamo mai rotto rapporti con nessuno, anche se abbiamo difeso con fermezza la nostra autonomia politica e la libertà di esprimere critiche e giudizi anche aspri. La nostra elaborazione, seppur ancora in via di formazione, sulla democrazia e sul socialismo, la nostra critica storica di modelli statali a partito unico ed autoritari, la critica del processo di modernizzazione capitalistica in nome della ripresa della liberazione del lavoro, l’idea del valore universale e progressivo della democrazia e della pace, dello sviluppo ambientalmente sostenibile, della differenza di genere, sono le linee guida di ogni nostra relazione politica. Abbiamo più volte affermato, in documenti e deliberazioni congressuali, che non esiste un campo di paesi socialisti. In particolare pensiamo sia necessario criticare la scelta del Partito comunista cinese di promuovere uno sviluppo fondato sul modello economico neoliberista e su un modello statale autoritario. Lo abbiamo fatto proprio per il peso enorme che la politica in Cina esercita sull’intero ordine mondiale e perciò non vogliamo che questa nostra posizione critica faccia venir meno l’interesse ad un confronto. Apprezziamo molto la scelta del Partito comunista cubano di coniugare le indispensabili aperture al mercato, e al capitale straniero, con una strenua difesa del sistema sociale fondato sulla piena occupazione e sulla garanzia dei diritti sociali fondamentali. Ma, anche questo, non per la presunzione, che non ci appartiene, di dare dei giudizi, bensì per il significato che Cuba continua ad avere nella lotta contro il dominio e la globalizzazione capitalista. Il nostro pacifismo non è strumentale né di maniera. Con la ricomparsa della guerra come strumento "normale" di governo del mondo si propone a tutte le forze comuniste ed anticapitaliste il grande problema della pace come tema centrale della lotta per la trasformazione. I movimenti pacifisti, ed in particolare il movimento femminista, hanno elaborato interessanti nuove letture del ruolo e della funzione della guerra, che giustamente, come nel caso di quella della Nato dell’anno scorso, viene definita "costituente". E’ necessario superare i limiti della semplice lotta "contro la guerra" per passare alla lotta "per la pace", come elemento fondante un nuovo ordine mondiale progressivo. Per questo rigettiamo ogni logica che porti a stringere alleanze con regimi oppressivi, più o meno apparentemente antagonisti dell’occidente, così come rifiutiamo ogni logica nazionalista oppressiva di minoranze e di opposizioni democratiche. In particolare, non ci sentiamo affatto solidali con gli attuali governi della Yugoslavia e dell’Iraq, sebbene sia utile mantenere aperti canali di comunicazione diplomatica e necessario sviluppare un’azione solidale in favore di quei popoli, così come abbiamo fatto contro la guerra della Nato e contro gli embarghi che li hanno colpiti. Né risparmiamo critiche a certe posizioni di partiti comunisti, come è il caso di quella del Partito comunista della federazione russa sulla guerra in Cecenia, che sembrano inclinarsi verso posizioni neonazionaliste.

Un soggetto europeo

Centrale, nella nostra iniziativa internazionale, è l’obiettivo della costruzione di un soggetto politico multinazionale e plurale in Europa. La positiva esperienza del gruppo unitario al Parlamento europeo, quella del Forum della Nuova sinistra europea e la serie di incontri multilaterali, tenutisi in diverse capitali europee, non sono più sufficienti. E’ necessario, nel prossimo periodo, fare passi avanti concreti per avere, in Europa, una forza capace di contendere l’egemonia al Partito socialista europeo e di intervenire nella crisi della sua prospettiva, che sappia essere punto di riferimento sovranazionale per le classi lavoratrici e per i movimenti sociali di tutto il continente. Elaboreremo ed avanzeremo, nei prossimi mesi, una proposta per una forma più organica di coordinamento e collaborazione fra tutti i partiti della sinistra alternativa in Europa. Per questo è indispensabile superare e battere le resistenze politiche ed ideologiche, messe in campo da alcuni partiti, che impediscono lo svilupparsi di una dialettica costruttiva fra tutti i partiti della sinistra alternativa in Europa. In nessun modo avalleremo tentativi di divisione dello schieramento di partiti che già oggi collaborano fra loro. Al contrario, ogni nostra scelta e proposta sarà ispirata dalla volontà di allargare ed arricchire il campo dei partiti che partecipano alla costruzione di un soggetto politico unitario. Il nostro rapporto con partiti dei paesi dell’Est europeo si deve ispirare, oltre che ai principi generali più sopra affermati, in modo particolare ai temi connessi all’allargamento dell’Unione europea e della Nato, nonché ai comuni problemi economico-sociali connessi al processo di globalizzazione. E’ evidente, infatti, che solo su questi temi è possibile avviare un rapporto più intenso che, al tempo stesso, non sia o appaia una riedizione dei vecchi rapporti, fra partiti comunisti, vigenti al tempo del "socialismo reale". Più in generale, la nostra iniziativa politica internazionale non è limitata alle relazioni ed agli incontri. Pensiamo siano maturi i tempi, per lo meno dal punto di vista della necessita, per la costruzione di obiettivi comuni generali. Per questo la nostra stessa interlocuzione con tutti gli altri partiti e movimenti deve sempre tendere a superare l’ambito ristretto, e sostanzialmente poco utile ed interessante, del tradizionale scambio di informazioni circa le rispettive situazioni nazionali, per mettere al centro, invece, i temi proposti dalla globalizzazione e la necessità di trovare obiettivi e forme di lotta comuni. Di importante rilievo, in questo senso, è da considerarsi il rapporto politico avviato con l’Ezln messicano, proprio perché incentrato su una critica della globalizzazione e contemporaneamente sulla necessita di una rifondazione della sinistra mondiale. Parteciperemo, come sempre abbiamo fatto, a tutti gli incontri multilaterali ai quali verremo invitati ma senza, nel modo più assoluto, favorire operazioni di ricostruzione di organizzazioni su base ideologica o di analogo significato. Parteciperemo, e dove possibile copromuoveremo, scadenze di lotta internazionali, a cominciare dalla prossima di Praga, come quella di Seattle in concorso con tutti i soggetti politici e sociali interessati. In casi particolari il nostro partito ha scelto di essere, nei limiti delle sue possibilità, protagonista diretto nell’ambito di situazioni particolarmente importanti. Basti citare i casi del Chiapas, del Kurdistan, del Kosovo, della Colombia. Non si tratta di iniziative di tradizionale solidarietà, bensì di un lavoro politico, che impegna da protagonista diretto il nostro partito, in conflitti e situazioni sui quali si gioca una parte importante dei futuri assetti regionali o addirittura mondiali. E’ necessario continuare su questa strada che si è rivelata molto fruttuosa per la nostra esperienza ed anche, è bene sottolinearlo, per il nostro prestigio internazionale. Il nuovo internazionalismo è, per sua natura, un banco di prova della rifondazione comunista e della costruzione della sinistra alternativa in Italia ed in Europa. Bisogna lavorare per stringere un rapporto stabile con la miriade di associazioni ed organizzazioni pacifiste ed internazionaliste che operano nel nostro paese. Nel pieno rispetto dell’autonomia e dell'identità di ognuno bisogna lavorare unitariamente su temi specifici, e soprattutto bisogna costruire una collaborazione generale e permanente sui temi della globalizzazione e sulle scadenze di lotta italiane ed internazionali. Il Dipartimento Esteri centrale, oltre ad organizzare l’iniziativa e le relazioni internazionali, che rimangono di esclusiva pertinenza della Direzione del partito, secondo la linea decisa dagli organismi dirigenti, deve contribuire a costruire in ogni regionale ed in ogni federazione una commissione sui problemi internazionali capace di creare iniziativa e di interloquire positivamente con tutti i soggetti presenti sul territorio.